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Biografia di un’incursione: la simulazione nelle Forze Armate

Alberto Andreotti
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Riflessioni di un rianimatore che entra in caserma per partecipare alle simulazioni degli incursori delle Forze Armate

Settembre 2018

Dopo qualche anno di intensa formazione, workshop e corsi con l’Accademia Militare, la posta in gioco improvvisamente si alzò. L’occasione di collaborare con i reparti speciali di “incursori”, certo, non era nei miei piani. 

Erano alcuni anni che tenevo periodicamente corsi in simulazione sulla gestione del Paziente Critico agli ormai graduati Tenenti medici dell’Accademia, quando una vecchia conoscenza mi contattò quale nuovo referente sanitario del più importante reggimento di incursori dell’Esercito. In altre parole, più che un incarico di lavoro, mi venne offerta la possibilità di muovere un piccolo passo dentro quell’impressionante mondo parallelo dei “Corpi Speciali”, dove i segreti militari governano la privacy ricoprendo tutto (uomini, oggetti, pensieri, parole) di un’assoluta quotidiana normalità.

Ma lì dentro, lo immaginiamo bene, nulla è quotidiano o normale. Non passò molto tempo prima di comprendere come il lavoro di certi reparti d’élite fosse addirittura collegato all’intelligence del Paese, il che rese il tutto ancora più intrigante.

Primo problema

Non potevo certamente essere all’altezza di quel compito. Ma chi lo sarebbe stato? Dalla mia avevo una solida esperienza con i medici dell’Esercito, una discreta reputazione come Rianimatore e sicuramente tanta voglia di provarci. Per contro, c’era un mondo di cui sapevo poco e nulla, persone di cui sapevo ancora meno e la quasi matematica certezza di essere inadeguato alle aspettative che alcuni avrebbero nutrito nei miei confronti. In altre parole, faceva esattamente al caso mio: sentivo senza alcun imbarazzo la narcisistica voglia di provarci e mettermi in gioco, rischiando anche il KO alla prima ripresa. Ma il gioco valeva la candela. 

Mi ritrovai, quindi, alla Caserma Vannucci di Livorno, una delle tante sedi delle Forze Armate Italiane, dove un certo Capo M (usiamo uno pseudonimo) mi avrebbe accolto per farmi da Caronte e Cicerone in quel piccolo paese nascosto agli occhi dei più.

Secondo problema

Tutti gentili, tutti educati ed, esattamente come mi aspettavo, tutti pronti a metterti alla prova perché in fondo, io, chi cavolo ero là dentro? E soprattutto, che competenze avevo per permettermi di andare a dire qualcosa a loro, all’Eccellenza, scelti tra i migliori, addestrati e selezionati per 2 anni, pronti a tutto? 

Dopo un minimo briefing da parte di Capo M, quindi, le esercitazioni ebbero inizio. O meglio, delle simulazioni ad alta fedeltà senza manichini ma con attori perché «le cose, per impararle bene, o si fanno veramente su persone vere o non si imparano» (cit.). 

Fui spettatore silenzioso e quasi invisibile per tutte le ore della simulazione che videro impegnati gli operatori “Combat-Medic” (non medici, quindi). Avrei atteso il debriefing, prassi più che comune nel mondo militare, per provare a dare una prospettiva differente dal classico T3C a cui abituati. Non intervenni neanche quando, durante una simulazione, all’ennesimo tentativo di posizionamento di un CVP, la vittima a terra guardò Capo M negli occhi come per chiedergli: “ANCORA!?” e Capo M gli rispose: “AHO! C’HA DA IMPARA’!”.

E venne il debriefing, sotto lo sguardo di sfida di tutti gli operatori che erano in fremente attesa di una qualsiasi critica per poter controbattere, allo stesso modo di come si risponde al fuoco nemico. Non li feci attendere troppo, bastò la seconda domanda: «Perché Zofran e non Plasil? Gli americani usano sempre il Plasil nel cocktail con Ketamina…». Dunque, premesso che ancora non sapevo nulla di che cavolo facessero gli americani on the field, la vera questione è che realizzai di avere davanti persone con un diploma di scuola media capaci di discutere su farmaci, fare manovre da medico specialista ed analizzare in senso critico qualsiasi deviazione rispetto ai protocolli su cui erano stati addestrati. Insomma, il gioco si faceva davvero interessante.

Terzo problema

Come avrei potuto garantire un adeguato livello formativo, cucito sulle reali necessità del personale “operativo”? Dove mi sarei potuto spingere nell’insegnamento della medicina critica e d’emergenza, soprattutto a livello procedurale e di manovre? Ovvero quali regole di ingaggio per i nostri militari e quale margine di intervento sanitario è deliberatamente concesso durante le missioni? E vi assicuro che, ad oggi, la sfida più grande è ancora far conciliare il “Think What is Better” con “Think What They Have” ed il “Think What They Can Do”.

Il debriefing durò un paio di ore, condito solo da alcune diapositive prese dal mio PC e da un vecchio software di simulazione (tipo patient monitor) con cui cercai di far calare gli operatori nelle criticità che avevo riscontrato. Fu difficile, sfidante, intrigante. Ma alla fine mi tesero la mano: «Dottore Grazie, questo è un piccolo pensiero…ci vediamo presto!».

Fu così che tornai a casa con il mio primo distintivo militare, un’ottima bottiglia di Merlot personalizzata e la sensazione – dopo 5 anni è ormai una certezza – di aver piantato un piccolo seme e di essermi fatto degli Amici. E da quel debriefing, infatti, dopo poco tempo “i venti di guerra” mi portarono dalle colline al mare, dai cieli alle immersioni, insomma dai paracadutisti ai subacquei.

Allo stesso modo di come entrai alla Caserma Vannucci mi attese la Fortezza del Varignano. Sotto l’Arsenale della Marina Militare, prossima al golfo di Porto Venere, un diamante di storia e natura, un simbolo di forza ed eroismo: “Teseo Tesei”. È essenzialmente qui, che vorrei descrivervi com’è cambiato il mio approccio alla formazione ed allo stesso modo la mia visione del Paziente Critico. Ma ve lo racconterò la prossima volta.

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Alberto Andreotti

S.C. ANESTESIA & TERAPIA INTENSIVA 1 AOU di Modena – Policlinico Istruttore HFS (High Fidelity Simulation) - Simula Hub (Accurate) Formatore Sanitario Forze Armate View all Posts

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