Quando a parlare di simulazione è uno storico dell’arte.
Simulare: da “simul” (insieme) e “similis” (simile): fare il simile, e quindi rappresentare, imitare.
Da cui deriva simulacro, dal doppio significato: “statua raffigurante una divinità”, oppure “parvenza”, “ombra”, financo “spettro”, come vedremo in Platone.
Simulazione come creazione.
Se si crede al potere magico della creazione artistica, ‘simulare’ attraverso l’arte equivale praticamente a ricreare una realtà: es. per il cacciatore che nel Paleolitico dipinse i bisonti a Lascaux convinto di evocarli e farli materializzare fuori della grotta, oppure per gli ateniesi del V° sec. a.C. che nella statua di Athena nel Partenone riconoscevano la presenza incarnata della divinità.
Simulacro in tal senso sarà allora anche la pala d’altare venerata nel Medioevo, scintillante d’oro: talvolta l’uomo del popolo si accaniva contro l’immagine di Giuda, o di un diavolo, sfregiandola con graffi. Cosa è questo se non il credere che lì, sulla tavola dipinta, vi sia in presenza la figura malvagia? Ancora una volta la rappresentazione simulata in qualche modo sostituisce la realtà.
Simulazione come inganno.
Platone invece ammonì che tutta la realtà sensibile è, invero, un’immagine imperfetta del mondo delle idee – vedi il mito della caverna in cui gli uomini si ingannano scambiando per cose reali delle mere ombre; l’artista, producendo copie di simulacri/ombra, si macchierà pertanto di un doppio inganno.
Arte come imitazione.
Nonostante quest’opinione di Platone, nell’antichità si fece strada il concetto che uno degli aspetti più meravigliosi dell’arte fosse proprio la sua capacità di simulare la Natura imitandola: per secoli il miglior modo per lodare un dipinto è stato dire che era pressoché indistinguibile dall’oggetto reale, come nel famoso esempio narrato da Plinio dell’uva dipinta così bene da Zeusi che gli uccelli tentavano di beccarne gli acini. Si fa strada l’apprezzamento della naturalezza non solo nelle arti figurative, ma anche per es. nell’arte retorica: Cicerone loda la capacità di un oratore di incantare e coinvolgere l’uditorio con parole che sgorgano senza sforzo, quando in realtà l’eloquio è frutto di anni di esercizio, studio ed elaborazione di espedienti retorici.
Ars est celare artem.
È il concetto dell’ars est celare artem: un’espressione sarà tanto più naturale quando si sarà stati capaci di nascondere lo sforzo preparatorio necessario a realizzarla. Corollario pratico: il lungo esercizio alla ripetizione di un gesto tecnico porta ad un’esecuzione veloce, efficace e apparentemente semplice e naturale, come un pianista che in scioltezza esegue una sonata tecnicamente difficilissima o un chirurgo che con mosse sapienti e sicure porta a termine in breve tempo un delicato intervento.
Ricreare per analogia.
L’imitazione della Natura si fa però analogica, e non pedissequa: l’arte imita la realtà in una versione idealizzata, esaltandone la luce tersa, le proporzioni armoniche e la perfezione geometrica e prospettica.
Nasce l’idea della rappresentazione artistica come convenzione, utile a fini estetici o di speculazione filosofica: una simulazione dichiarata come tale, ma non per questo meno necessaria (seppure l’arte raramente cerchi l’utile, scopo invece della simulazione didattica).
Certo però non pensano di recitare in uno scenario di simulazione i due santi medici Cosma e Damiano quando letteralmente ‘appiccicano’ ad un paziente una gamba prelevata da un cadavere dalla pelle scura, nella predella dipinta dal Beato Angelico!
Dissimulazione.
Tralasciando Leonardo e la sua figurazione dei ‘moti dell’animo’ basata su studi di anatomia (la novità del Cenacolo milanese sta proprio nelle umanissime reazioni degli apostoli all’annuncio del tradimento), nel Cinquecento riaffiora l’accezione di simulazione come menzogna. Sensibili a tormenti religiosi e intrighi di corte, Vincenzo Danti e il Bronzino realizzano opere quali L’Onore che vince l’Inganno o l’Allegoria dell’Amore del museo di Londra, in cui la fanciulla mostruosa dal corpo di drago tiene in una mano il favo col miele (le dolci adulazioni) e nell’altra un pungiglione velenoso.
Emblema dell’inganno, inventato da Michelangelo, è la maschera: come nell’Allegoria della Notte della Sagrestia Nuova, la maschera si associa all’ingannevolezza dei sogni. Nell’intrigante coperta di ritratto degli Uffizi essa nasconde il volto in un gioco di dissimulazione: “SUA CUIQUE PERSONA”, “a ciascuno la propria maschera”.
Trompe l’oeil.
Il Barocco segnerà l’apogeo dell’illusionismo, inteso come tecnica per meravigliare (“è del poeta il fin la meraviglia”) simulando una realtà che non esiste. Siamo nell’epoca del trionfo del teatro e della scenografia: si pensi ai finti cieli popolati di nubi e angioletti svolazzanti che ‘sfondano’ illusionisticamente i soffitti delle chiese barocche.
Per inciso, tornando alla simulazione in medicina, ho riflettuto su quanto opportuna sia la componente di recitazione ed immedesimazione in chi partecipa allo scenario, sia con un manichino sia con un ‘finto’ paziente dotato di devices. La verisimiglianza cui aspira l’arte barocca (vedi anche il naturalismo caravaggesco e la nascita del genere della natura morta in rapporto alla nuova esperienza galileiana) fa leva sui concetti di immersività e convincimento, in un coinvolgimento di mente e sensi.
L’era delle disillusioni.
Quando si è inventato un mezzo meccanico di riproduzione fedele come la macchina fotografica, che senso ha dipingere un ritratto con intenti realistici? L’arte si volge a scandagliare il non visibile, gli abissi della psiche e dell’immaginazione.
A noi moderni la croce del disinganno: Magritte ci spiega che “questa non è una pipa” (Ceci n’est pas une pipe); cade la convenzione dell’identità tra oggetto reale e sua rappresentazione simulata: l’arte dichiara di essere falsa. Peccato, preferivo quando mi nutrivo del bisonte che avevo dipinto nella grotta!
Animus.
Tuttavia rimane un ultimo, importante mito da citare, e che in un contesto medico come questo, potrei definire in maniera un po’ spericolata ‘il mito della rianimazione’.
Pigmalione, secondo gli antichi Greci, scolpisce una statua raffigurante una fanciulla così bella da innamorarsene: implora gli dei che la trasformino in una donna in carne ed ossa, e la sua preghiera viene esaudita.
È l’idea che l’uomo possa infondere una parte del suo spirito nella materia informe, plasmandola ed animandola: insufflando l’animus, il soffio vitale. Lo stesso gesto di Dio che dà la vita ad Adamo nella Cappella Sistina, Michelangelo lo ha rivolto al blocco di marmo da cui ha ricavato i Prigioni, che lottano per liberarsi del tanto di inerte che ancora li appesantisce.
Il mito, eterno ed attuale, passa dunque per Geppetto che realizza un simulacro di bambino: il burattino Pinocchio, al quale però poi, tramite amore e dedizione, sarà concessa la metamorfosi definitiva.L’artista-demiurgo dà forma, e quindi bellezza, e quindi vita: al medico il compito di proteggere e ripristinare questa vita minacciata, affievolita, compromessa. Facile a dirsi? La vera Arte sta nel nascondere l’Arte.